Zia Antonietta ed il “suo” pane carasau

Il pane sardo più famoso rimarrà sempre il Pane Carasau. La lavorazione del pane, in tempi antichi, avveniva attorno all’unico focolare della casa ed era momento di dialogo tra le donne di famiglia. Le fasi che prevedono la preparazione del pane si susseguono in maniera ritmata e scandite dal sole. La signora del paese, madre di cinque figli, in un casolare immerso tra i verdi ginepri, mi raccontava come fare il pane fosse difficoltoso e stancante ma allo stesso tempo riuniva la famiglia in un momento conviviale in cui i più piccoli stavano adagiati in una cesta di vimini di bianco puro nei pressi del focolare e quelli più grandi giocavano sul lato opposto della stanza mentre i mariti erano in campagna, col freddo invernale, a pascolare i greggi. Momenti richiamanti la vita agro-pastorale a cui il pane carasau è fortemente legato: infatti, grazie alla sua durata, il pane veniva fornito in grosse quantità al pastore che, distante da casa per lunghi periodi, inumidendolo con l’acqua, poteva gustarlo come fosse fresco. La “zia” Antonietta, del paese del nuorese, racconta come il pane veniva lavorato e lo rifà davanti ai miei occhi con tanta facilità e destrezza. La signora dalle guance rosee, mi narra tutte le varie fasi mentre, con mani grandi ma graziose, mescola in una ciotola di terracotta il sale, il lievito, la farina di grano duro e l’acqua. Il colore biancastro dell’impasto è uguale a qualsiasi altro ma la potenza è senz’altro diversa; ad un certo punto, la signora con fare deciso e quasi pericoloso sbatte sul tavolo l’impasto ottenuto affermando che quel modo di lavorare viene chiamato cariare, ossia picchiare. Lasciata la pasta riposare sotto teli di lana, zia Antonietta si intrattiene nel dialogare su antichi detti sardi mentre cerca di lenire i fastidi dei piccoli pargoli che cercano le sue attenzioni. La donna mi racconta come in quel piccolo paese esistano delle piccole aziende che lavorano il pane in quel modo e che l’aiuto delle macchine industriali sembra intaccare la naturalità dell’impasto: “fatto in casa è tutta un’altra cosa”. Passato il tempo, la pasta lievitata viene stesa su un tavolo e a pezzetti le viene data la forma di disco. Una volta delineata la forma, la si pone in un forno a legna in cui il fuoco arde legni di quercia e olivastro; la pasta inizia a gonfiarsi e mai avrei pensato che il foglio di carta musica fosse la metà di quella palla dorata. Una volta estratta dal forno, la palla viene divisa in due da un coltello che la donna si presta a cercare in modo concitato. “E’ la fase più delicata” mi dice, “se non le separi ora, il pane carasau sarà troppo spesso”; ammutolita per non distrarre la sapiente donna, ammiro con quanta resistenza riesce a toccare quel pane cocente, lo divide e lo pone dentro un paiolo enorme. Ultimata la prima cottura, ogni foglio viene riposto in forno e viene fornita la doratura necessaria, a seconda dei gusti, e poi posto sotto un asse di legno rotonda che pressata riduce il volume di chili e chili di pane carasau. Dopo una lunga giornata in paese, saluto zia Antonietta e la ringrazio per aver saputo con tanta maestria concedermi questa lezione di vita pastorale.

Signora cuoce il pane carasau
Ragazza in abito prepara il pane carasau
Cottura Pane