La Valle della Luna: spettacolo di rocce

Valle della Luna - Prima

Non si tratta di un titolo fantascientifico per un film surreale, ma è il nome di una “valle” incastonata a Nord dell’Isola.

Immersa tra rocce granitiche e bagnata da spumeggianti acque, si affaccia a pochi km di distanza dalla Corsica. Poche sono le parole che riecheggerebbero l’emozione vissuta nel vederla, ma una la si può sottolineare: silenziosa.

Nel silenzio delle sue cale, dinanzi ai tuoi occhi, può mostrarsi l’orizzonte infinito. Il mare, sempre infervorato dai venti che si scagliano su questo angolo di paradiso, porta freschezza nelle calde giornate d’agosto per mitigare il granito rovente.

Gruppi di giovani si danno appuntamento qui, in Valle, per ovviare alle folle incontenibili delle spiagge isolane e per andare incontro alla natura selvaggia e incontaminata. Una giornata in Valle è una giornata indimenticabile: la sosta notturna, con degno equipaggiamento, dona al visitatore un cielo stellare visibile nel suo intenso blu notte.

La mattina successiva, smontare le tende e riordinare il proprio zaino è un colpo al cuore. Non appena si scopre l’avventura e la spensieratezza di questo luogo, ci si rammarica per il doveroso abbandono e per il ritorno al Mondo in cui regna frenesia e consuetudine.

Valle della Luna - Acqua

Sardegna… Vivere senza tempo… Leggeri come l’aria… Liberi come il vento…

Tutto iniziò con un’impronta

Ichnossa

La leggenda sulla nascita dell’Isola narra che la sua creazione è stata il risultato residuale e unico allo stesso tempo.

Una volta finita la creazione dell’intero Mondo, Dio raccolse tutti i frammenti e i residui di sporco, li mise in terra e batté il gigante piede su di loro.

I Greci la chiamavano “Ichnoussa” ossia impronta: l’impronta di Dio. Un’impronta che ha in sé la potenza della bellezza, con i suoi confini irregolari, immersa in un azzurro mare e sotto un cielo immenso; consacrata dai turisti come “Paradiso” e dagli abitanti come “La migliore parte del Mondo in cui vivere”; abbandonata alla natura più arcaica unità alla modernità dell’evoluzione; tutto ciò non poteva che avere un solo nome: Sardegna!

Le spiagge dell’Isola sono “BandieraBlu”

Maggio 2014. Come volevasi dimostrare, considerata la bellezza e l’affascinante panorama, 6 spiagge rientrano nell’elenco dei 269 lidi italiani. 4 province sarde su 8, da Nord a Sud e da Est a Ovest, la Sardegna colpisce ancora.

PROVINCIA DI OLBIA-TEMPIO

Rena Bianca
Rena Bianca e Capo Testa (SANTA TERESA DI GALLURA)
Fonte: Comune di Santa Teresa di Gallura
Palau
Spiaggia (PALAU)
Fonte: Comune di Palau
Mare de La Maddalena2
Mare de La Maddalena
La Maddalena (ISOLA DE LA MADDALENA)
Fonte: Comune de la Maddalena

PROVINCIA DI ORISTANO

Torre Grande 2
Torre Grande (ORISTANO)
Fonte: Comune di Oristano

PROVINCIA DELL’OGLIASTRA

Lido di Orrì (TORTOLI’)
Fonte: Comune di Tortolì

PROVINCIA DI CAGLIARI

Spiaggia Poetto (QUARTU SANT’ELENA)
Fonte: Cagliari Turismo

Superba Sardegna!

L’Isola dell’estasi, della qualità della vita, dell’amore per la natura selvaggia e ancestrale e del quieto vivere. Tutto ciò assume oggettività quando a descriverla sono gli “amanti del bello” e non solo la popolazione sarda.

Molte le esperienze vissute in questa terra di tradizioni e di costumi e innumerevoli i commenti sulla bellezza ed incomparabilità dell’Isola, facendo nascere nei suoi visitatori il “mal di Sardegna”!

Tom Daily Mail 2

In un recente articolo, pubblicato dal DailyMail, Tom Parker Bowles racconta la sua vacanza in Sardegna definendola “Superba!”.

Nonostante l’odio per i resort all-inclusive, decide di trascorrere una vacanza con i propri figli e con la moglie. Deliziato dal servizio a loro riservato, si rende conto che non è il resort che ti lascia incatenato alle quattro mura, ma al contrario lo lascia soddisfatto. Nonostante la dicitura “all-inclusive” possa sembrare un insieme del mediocre e del risparmio, trova, nell’enorme resort, un rifugio dalla quotidianità, dalle giacche e cravatte, dalla sveglia puntata alle 6:00 della mattina. Spinto dal benessere dei figli, Tom è riuscito a ritrovare in Sardegna la serenità che ricercava definendo la sua esperienza una favola in tutto e per tutto.

I giganti di Monte Prama come l’esercito cinese di terracotta?

Anno di ritrovamento: 1974

Luogo di ritrovamento: Monte Prama, Cabras

Cabras

Restauro e conservazione:

Dal 2007 al 2012, i reperti (5200 circa), provenienti dagli scavi degli anni 70/80, sono stati assemblati e montati su strutture portanti che hanno permesso la “creazione” di 38 sculture.

Luogo di restauro e conservazione:

Nel centro di Conservazione e Restauro a Li Punti, Sassari: progetto “cantiere aperto al pubblico”.

Il pugile

Il pugile

Il guerriero

Il guerriero

L'arciere

L’arciere

17 febbraio 2014. Un giornalista del quotidiano inglese “The Indipendent”, David Keys, scrive:

Archeologi e restauratori Sardi hanno faticosamente ricostruito un puzzle costituito da circa 5000 frammenti lapidei ricomponendo un piccolo esercito di guerrieri in pietra delle dimensioni di un uomo. Il piccolo esercito di statue lapidee, unico in Europa, si pensa sia stato distrutto nel bel mezzo del primo millennio a.C. da parte di un invasore esterno.

Sebbene costituito da un numero di elementi molto inferiore rispetto il più famoso esercito di terracotta Cinese quanto ritrovato in Sardegna risulta di grande importanza in quanto più antico di 500 anni oltre che realizzato in pietra (e non in ceramica come quello Cinese).

Esercito cinese terracotta

Otto anni di lavoro hanno reso possibile la ricomposizione di ben 25 dei 33 guerrieri di pietra, rendendo possibile l’identificazione di tre differenti figure scultoree: arcieri, pugilatori e probabilmente dei guerrieri armati di spada. Originariamente le statue sono state poste alla guardia delle sepolture dell’elite della società caratterizzante la Sardegna dell’età del ferro (VIII sec. a.C.). Non è chiaro se i giganti di pietra sia stati collocati ad eterna protezione del sepolto o a rappresentazione dello stesso. Nei secoli successivi la loro collocazione i Cartaginesi (provenienti dall’attuale Tunisia) invasero la Sardegna e si pensa distrussero i guerrieri di pietra oltre che i modelli in pietra dei Santuari-Fortezza (ndr: Nuraghe). Secondo gli archeologi le ragioni della devastazione sono da attribuirsi all’importante valenza simbolica dei manufatti e delle tombe da esse protette. In epoche successive il sito fu abbandonato e dimenticato, la Sardegna passò dal controllo Cartaginese a quello Romano per poi passare nelle mani dei Vandali, Bizantini, Pisani, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, Savoiardi ed infine, ai giorni nostri, Italiano. Le migliaia di frammenti furono riscoperti solo nel 1970, la prima campagna di scavo fu condotta nel 1980 da parte dell’archeologo italiano Carlo Tronchetti. Al termine degli scavi fu possibile riassemblare solo due statue mentre la stragrande maggioranza del materiale fu invece conservata presso i magazzini del museo di Cagliari fino al 2004 anno di inizio dell’attività di restauro ad opera del Centro di restauro di Li Punti – Sassari. Il ricostituito “esercito di pietra Sardo” richiama l’attenzione su una grande civiltà antica, quella Nuragica, della quale non ci conosce ancora molto. La civiltà Nuragica dominò l’isola dal XVI sec. a.C. al VI sec. a.C. e durante il suo periodo di massimo splendore (XVI-XII sec. a.C. ) edificò uno dei monumenti architettonici più imponenti mai prodotti nella preistoria: il nuraghe. Ancora oggi i resti di circa 7000 fortezze nuragiche – i castelli più antichi d’Europa – continuano a dominare il paesaggio della Sardegna restituendo l’impressione di quanto dovesse apparire eccezionale l’architettura militare dell’età del Bronzo in Sardegna. Le statue verranno esposte al pubblico a partire dalla prossima estate a Cagliari (località a 100 Km a Sud-est dalla zona di ritrovamento). Alcune statue raffigurano dei guerrieri armati con archi, altre invece rappresentano delle figure protette da scudi provvisti di un’armatura di protezione ed un elmo con corna sulla testa. Un terzo gruppo di statue rappresentano invece i cosiddetti “pugilatori” ovvero delle figure che stringono uno scudo sopra la testa con la mano sinistra. Quest’ultimi si pensa possano rappresentare gli scudieri posti al servizio dei nobili sepolti nelle tombe hai piedi delle statue stesse. Oltre i frammenti delle statue è stata rinvenuta una serie di modelli di nuraghe di differente tipologia (monotorre o complessi). E’ probabile che i modelli rappresentano le costruzioni reali monumentali (fortezze dell’Età del Bronzo trasformati in ancestrali dei santuari durante l’età del Ferro) associati con la famiglia immediata di ogni individuo sepolto. La classe dirigente di questa parte della Sardegna potrebbe essere stato un gruppo relativamente ristretto di individui strettamente correlati. I lavori scientifici effettuati sul materiale scheletrico presso un laboratorio di Firenze suggerisce che la maggior parte degli individui erano imparentati da almeno due generazioni.”

Fonte: David Keys, giornalista

L’elisir di lunga vita? Parola agli americani

Il vitigno del Cannonau

Febbraio 2014. Il dottor Mehmet Oz elogia in tv il vino sardo. Nel suo vitigno risiederebbe il segreto dell’eterna giovinezza.

L’elisir di lunga vita? Il vino Cannonau. Parola del dottor Mehmet Oz, il chirurgo più famoso d’America. Il luminare ha rivelato il segreto dell’eterna giovinezza nel corso del suo talk show, seguito da milioni di persone. Secondo Oz il vino sardo per eccellenza fa bene alla salute e grazie ad esso i sardi sarebbero uno dei popoli più longevi a livello mondiale. Le proprietà benefiche del Cannonau risiderebbero nel suo vitigno, che contiene procyanidinis, un potente antiossidante che darebbe benefici vascolari da 5 a 10 volte maggiori rispetto alle altre varietà. Una notizia che ha generato un boom di vendite di questo vino, fanno sapere dalla Pala, piccola e quotata cantina della Sardegna che esporta il 40 per cento delle 500 mila bottiglie prodotte l’anno. Tuttavia, anche se bere Cannonau fa bene al cuore, specifica Oz, è importante non esagerare. Tra le terre che annoverano un’età media decisamente più lunga delle altre, oltre alla Sardegna, segnala il medico ci sono anche Okinawa in Giappone, Nicoya Penisula in Costa Rica, Loma Linda in California e Ikaria in Grecia.

Fonte: AnsaUnione SardaTiscali

L’Eroe dei Due Mondi trovò pace in Sardegna

Garibaldi a Caprera

Giuseppe Garibaldi approdò a Caprera per la prima volta il 25 settembre del 1849, in seguito al suo arresto si era deciso di mandarlo in esilio a Tunisi. Il Bey non era propenso ad accoglierlo e quindi alla nave incaricata di trasportarlo, venne ordinato di trasportarlo sull’isola di La Maddalena. La nave era comandata dal maddalenino Francesco Millelire. Sulla nave, ad assistere il generale, vi era il suo compagno fedele Giovanni Battista Culiolo chiamato “Leggero”, anch’egli maddalenino, che lo aveva seguito in tutti i suoi viaggi e lo aveva confortato dopo la morte della sua amata Anita. I maddalenini accorsero numerosi all’arrivo di Garibaldi, tutti quanti volevano conoscere Leggero, personaggio divenuto famoso per le sue gesta. Il generale era circondato da altri maddalenini come Giacomo Fiorentino e Antonio Susini che lo servirono fedelmente. Dedicò il primo giorno alla conoscenza delle famiglie dei suoi fidi e i successivi alla conoscenza di una famiglia in particolare, quella dei Susini, alla quale restò particolarmente legato. In quei giorni Garibaldi durante una battuta di pesca salvò la vita a un bambino e tre uomini che si erano rovesciati con la barca; per ricordare tale evento venne esposta una targa sulla facciata della casetta di Barabò, ancora oggi visibile. Durante il mese di soggiorno ebbe modo di conoscere ed apprezzare gli abitanti di La Maddalena, gente a cui presto si sarebbe unito. Prima di lasciare l’isola ed approdare in esilio a Tangeri scrisse al sindaco Nicolò Susini una lettera di ringraziamento e gratitudine all’intera popolazione.

Innamorato della Sardegna decise di acquistarvi un terreno: la scelta cadde sull’isola di Caprera. Acquistò una vecchia casa da un pastore e con l’aiuto del figlio la ristrutturò. Si recò poi a Londra per acquistare una barca e convincere la sua fidanzata Emma a seguirlo a Caprera; non riuscì nell’intento e in ricordo del mancato fidanzamento battezzò la sua barca col nome Emma. Inizialmente si dedicò al commercio tra Nizza e Genova. Nel 1857 la sua Emma, carica di calce, ferro e legname, naufragò vicino a Caprera; decise allora di abbandonare definitivamente il mare per dedicarsi all’agricoltura. Costituì così una comunità di pastori e amici e la sua casa venne ingrandita. Garibaldi divenne presto il signore di Caprera, numerosi emissari e persone influenti si recavano nell’isola per visite di cortesia e consigli. Senza nessun riconoscimento e nessuna ricompensa, dopo aver dedicato la vita alla patria, visse gli ultimi anni in assoluta povertà, circondato dall’affetto della sua compagna Francesca Armosino, fino al 1882, anno in cui il generale si spense.

Caprera - Monumento Garibaldi
Caprera - Casa G. Garibaldi
Caprera - Mulino di Garibaldi

La Sardegna: la Terra dei vulcani

Monte Santo

La Sardegna è una terra di vulcani spenti, forze della natura in stasi da tempo, luoghi affascinanti di un paesaggio unico. Molte le alture che presentano geologicamente le caratteristiche vulcaniche: Monte Ruju, Monte Arana, Monte Cuccureddu, Monte Annaru, Monte Traessu e Monte Santo. Sono localizzati tutti a ovest dell’Isola a pochi passi dalla città catalana di Alghero e dalle belle spiagge di Bosa e di Stintino.

Le alture piccole o grandi, coniche o aguzze, esaltano l’escursionista ma non come l’emozionante cima pianeggiante del Monte Santo immerso nella natura sempreverde. Un vulcano spento, ricoperto di vegetazione e di arbusti di ogni genere, accoglie nel suo lato una piccola chiesetta dedicata ai santi Elia ed Enoch che, eretta nel XI secolo, è considerata la più antica chiesa sarda a due navate.

Il “vulcano sardo” Monte Santo è il chiaro esempio di come l’Isola non sia asismica, o perlomeno, non lo è mai stata.

Chiesa di Sant'Elia e Enoch

L’arte delle donne: i tappeti sardi

Tappeti Samugheo 1

Più che arte è tradizione. Nonostante la bellezza dei disegni geometrici o quelli richiamanti la natura, i tappeti sardi andavano, in tempi passati, a confondere in un unico istante il lavoro della madre ed il lavoro della figlia entrambe intente a creare con grande passione un intreccio di filati. Di solito, la realizzazione del tappeto era un momento antecedente al matrimonio delle figlie e donatole per adornare la nuova dimora. Tessere con diverse tecniche, con svariati macchinari (telai orizzontali o verticali), in variegati colori e forme rende ogni singolo tappeto un pezzo unico nel suo genere. Adattabile all’ambiente nel quale è inserito, si presenta in diversi colori da quelli tenui di Samugheo a quelli sgargianti ed appariscenti di Nule.

Tappeti Nule 1
Tappeti Samugheo 2

La ziqqurat “sarda” e il principe Uruk

Monte d'Accoddi ricostruzione

Monte d’Accoddi, nella Nurra, richiama una ziqqurat mesopotamica ma, al contrario di questa, era rivolta alla Luna. Il monumento eretto sulla cima,  pare fosse un altare a forma di croce rivolto verso il tratto di mare tra Stintino e l’Argentiera. La ziqqurat venne cotruita in età pre-nuragica sotto la “Croce del Sud” e l’altare costruito pare fosse dedicato alla Dea Madre, generatrice di vita, grazie ai reperti recuperati nei pressi del monumento chiaramente richiamanti la figura femminile.

La leggenda narra che a costruire il tempio fosse un principe-sacerdote di nome Uruk, fuggito dalle sue terre e stabilitosi in terra sarda. La ziqqurat venne eretta come protezione per il suo popolo e come luogo di fede dedicato alla luna, raggiungibile attraverso una scala che separa la terra dal cielo come compimento di un percorso spirituale.
Durante la costruzione, si palesò, dinanzi agli occhi di Uruk, una donna bellissima che richiedeva di vedere il tempio. Il principe Uruk le vietò la visione e la donna, dopo tante insistenze, gli comunicò di porre al riparo il proprio popolo a causa di una tempesta che di lì a poco avrebbe distrutto tutto. Uruk non credette alle parole della donna, si dissero “Addio!” e la salutò. Tempo dopo, si imbatté sulla zona una forte tempesta che rase al suolo tutto, ricoprendo di sabbia e terra il monumento alla Dea Madre. Per fortuna, Uruk mise al riparo il popolo e si accorse che, nonostante tanta distruzione, la luminosità della Luna li proteggeva. Il principe, finita la tempesta, si convinse che la donna bellissima fosse la Dea Madre e che avesse rinunciato alla propria divinità per amore e per questa ragione avesse distrutto il tempio a lei dedicato. Convinto di ciò, il principe-sacerdote tornò in Mesopotamia con lei e per sempre lasciando a noi la scoperta di quel tempio distrutto.

Monte d'Accoddi -scala-

“Domu ‘e s’orcu”

Tomba dei Giganti
Tomba dei Giganti - Modello 3D

“Domu ‘e s’orcu”. La Casa dell’Orco, secondo la tradizione popolare sarda, era il luogo in cui un gigante, abitante dell’Isola, si cibava delle proprie vittime arrivando a scarnarle, poi riponendone le ossa all’interno del sepolcro. Per altri, questi antichi monumenti funerari erano semplicemente degli ossari nei quali depositare le spoglie dei defunti una volta che questi divenivano scheletri. Chiamate altresì “Tombe dei Giganti”, grazie all’enorme struttura, assumono una forma circolare al cui centro si erige una pietra più grande, la porta alla Tomba.

Stele di Coddu Vecchju
Dea Madre

Alla disposizione a semicerchio vengono date differenti interpretazioni, la prima richiama le venerazioni al Dio Toro e alla Dea Madre: una testa di toro (Dio della Luna) o una partoriente (Dea Madre, donatrice di vita)?
L’altra interpretazione inneggia alla Terra, infatti pare che la disposizione di questi enormi massi seguano le linee energetiche telluriche il cui flusso si imprima nelle stesse pietre. Quest’ultima interpretazione ha portato, in passato, ad intendere le “Tombe dei Giganti” come un luogo curativo: da qui l’usanza di stendersi sulla pietra per poter catturare tutte le energie che la Terra emana. Sia vivi che morti erano ospiti di questi luoghi; i vivi per guarire da una malattia ed i morti, riposti all’interno, avrebbero ricevuto quell’energia tale da far separare l’anima dal corpo in modo da facilitare la rinascita.

Dio Toro

La Sardegna e i siti UNESCO

In Sardegna vi è un sito riconosciuto come Patrimonio dell’UNESCO: il villaggio nuragico di Barumini.

Su Nuraxi di Barumini

 “Circa 3.500 anni fa sulla collina di Barumini gli antichi costruirono un nuraghe e un piccolo villaggio di capanne. I nuraghi sono eccezionali monumenti a mezza strada tra l’edilizia difensiva e quella civile, sono sopravvissuti fino ai giorni nostri a testimonianza di una cultura millenaria collegata alle civiltà megalitiche del bacino del Mediterraneo. Le strutture architettoniche sono costituite da torri a due piani a forma di tronco di cono, realizzate con pietre di notevoli dimensioni disposte a secco in cerchi concentrici sovrapposti che si stringono verso la sommità.La civiltà nuragica svolse un ruolo importante nella diffusione della cultura micenea ed in seguito di quella fenicia, anche se alcune sue peculiarità rimangono avvolte dal mistero, forse incomprensibili perché estranee alla cultura greca classica. Su Nuraxi è l’esempio più completo e meglio conservato di nuraghe.

Questo è ciò che motiva la scelta per la nomina a Patrimonio culturale. La sua iscrizione nella lista risale al 1997 e i criteri che hanno confermato la scelta sono stati i seguenti:

– È stato considerato un capolavoro del genio creativo dell’uomo

– È una testimonianza unica di una tradizione culturale (es. Nuraghe simbolo della Sardegna) e di una civiltà antica

– Inoltre, è stato considerato un esempio straordinario di una tipologia architettonica e di paesaggio che testimonia altresì una fase della storia umana.

(Fonti: Associazione Beni Italiani Patrimonio UNESCO e UNESCO)

Sardegna: prima in “Guida Blu 2013”

Posada

Giugno 2013. Nel report “Guida Blu” di Legambiente e Touring Club Italiano a farla da padrona è la Sardegna; infatti, si è collocata al primo posto, tra le mete vacanziere d’eccellenza, la spiaggia di Posada, in provincia di Nuoro. 

L’attribuzione delle 5 vele è “il massimo riconoscimento che Legambiente attribuisce per l’offerta turistica di qualità, abbinata alla gestione sostenibile del territorio, alla salvaguardia del paesaggio, ai servizi d’eccellenza offerti nel pieno rispetto dell’ambiente e all’enogastronomia di alto livello”.

Oltre alla prima classificata Posada, le altre spiagge sarde, oggetto di valutazione, sono state: Villasimius (CA), Baunei (OG) e Bosa (OR).

Villasimius (CA)

Villasimius (CA)

Baunei (OG)

Baunei (OG)

Bosa (OR)

Bosa (OR)

Fonte: Legambiente

La Sardegna: un “passaparola” internazionale

Cala Luna

Gennaio 2014. Il nuovo anno si apre con l’amore incondizionato e diffuso per l’Isola sarda ma a parlarne non sono gli abitanti sardi e neanche i connazionali peninsulari bensì “amanti” d’oltralpe e oltreoceano, ossia inglesi, tedeschi e americani.

Alcuni articoli internazionali, appartenenti a testate giornalistiche famose in tutto il mondo, pubblicizzano la Sardegna come l’Isola “a porta di bambino”, “di benessere” e “su cui si possono fare investimenti di lusso” e lo fanno sul “Times” londinese, sul “Daily mail” e sul “NewYork Times“.

TheTimes
DailyMail
NewYorkTimes

In Sardegna si vive meglio e più a lungo…

Famiglia Longeva Melis 2

NUORO. La famiglia più longeva al mondo si conferma quella di Consola Melis di Perdasdefogu, che ad agosto ha compiuto 106 anni. Così come avvenuto un anno fa, le è stato consegnato di nuovo l’attestato del Guinness World Record nel quale si dichiara che adesso complessivamente i nove eredi di Cicciu Melis ed Eleonora Mameli hanno raggiunto 828 anni e 45 giorni, il tutto alla data del 24 giugno 2013.

A consegnare il diploma americano è stato Vittorio Palmas, noto «Cazzài», centenario, proprio oggi, anche lui. L’occasione è stata la presentazione di un libro sulla sua storia straordinaria: superstite del campo di concentramento tedesco di Bergen Belsen dove, con gli altri prigionieri, veniva pesato ogni settimana. «Chi pesava meno di 35 chili – ha raccontato – veniva ucciso nelle camere a gas. Quel giorno del 1943 io pesavo 37 chili, sono vivo per due chili».

Il record della famiglia foghesina cresce anche grazie ai 100 anni compiuti due settimane fa da Claudia Melis. Vale la pena ricordarla la famiglia del Guinness: dopo zia Consola e la sorella Claudina, ci sono Maria 98 anni, Antonio 94, Concetta un anno in meno, Adolfo «appena» 90enne, Vitalio 87 anni, Vitalia 82 e la «piccola» di casa, Mafalda,79 anni. Non si contano i figli, nipoti, pronipoti e cugini, solo per citare i parenti stretti.

E dopo la cerimonia, nella biblioteca comunale, zia Consola è pronta a tornare a casa per prepararsi la consueta cena cucinata ai fornelli «perché – precisa l’arzilla nonnina – la minestrina preferisco farmela da sola».

Famiglia Longeva Melis

Tavolara: paradiso del trekking

Tavolara
Tavolara

È un’enorme montagna che incombe all’orizzonte, il primo lembo di terra ad apparire quando il porto di Olbia si avvicina. Si presenta come una grande massa brulla e inospitale quest’isola dalla forma allungata, che nel suo punto più alto misura quasi seicento metri. Solo continuando a costeggiarla si rivela verde e accogliente. Tavolara ha un fascino unico, accentuato dalla presenza di numerose piante endemiche e da un ecosistema rimasto intatto. A preservarla sono state e sono anche le difficoltà di approdo e le secche che la circondano.

A partire dagli anni Settanta, la presenza di un centro radio militare e la successiva istituzione del parco marino protetto, che include le isole di Molara e Molarotto, hanno limitato l’accesso a una piccola area dell’isola. Una barriera al turismo e insieme una fortuna: con i divieti, flora e fauna si sono ripopolate. La spiaggia di Spalmatore è l’unica parte visitabile: una lunga striscia di terra bassa, caratterizzata da una spiaggia di sabbia bianca, un piccolo attracco e due ristoranti aperti solo nel periodo estivo. Lo spazio limitato e l’assenza di strutture dove pernottare permette escursioni in giornata, da Porto San Paolo, per godersi un bagno in un angolo di paradiso lontano dalle spiagge più affollate, e magari un pranzo seduti a un tavolo con vista mare anche in ottobre.

Da due anni è possibile avventurarsi nell’isola anche con scarpe da trekking e zainetto. L’aspetto montagnoso, con la sua composizione calcareo-dolomitica, è un invito ir rinunciabile per gli amanti delle escursioni in salita. A patto di non avventurarsi da soli. I pochi sentieri non sono battuti. Contattando la Pro loco di Porto San Paolo si trovano guide autorizzate per raggiungere la cima in piena sicurezza, un’esperienza unica. Si parte alle sei del mattino, in gommone, da Porto San Paolo con il mare piatto e il sole che inizia ad affacciarsi. Una volta sbarcati a Spalmatore, si inizia camminando sul sentiero che sovrasta la scogliera, a pochi metri dal mare, sul versante sud est. Questo tratto ricalca un’antica carrareccia utilizzata in passato per trasportare roccia calcarea e legname destinati ai forni per la produzione della calce. L’isola, durante il secolo scorso, era diventata un piccola realtà industriale. Ma sul finire del Novecento, la comparsa del cemento e l’esaurimento del legname per alimentare i forni ne decretarono il progressivo spegnimento. Tavolara, un tempo ricoperta da una fitta foresta, rimase completamente spoglia. Il tracciato per raggiungere la cima alterna tratti di fitta macchia mediterranea, pietraia e punti a precipizio sul mare. Man mano che la salita prosegue, cambiano i punti di osservazione; il territorioe il suo piccolo arcipelago rivelano aspetti differenti. I più avventurosi possono salire percorrendo l’ultimo tratto sulle rocce; in alternativa, si può allungare il percorso aggirando l’ostacolo. In due ore e mezza la cima è raggiunta, altrettante ne occorrono per ridiscendere, ma se la giornata è limpida, il panorama che si gode dall’alto non si dimentica facilmente.

Fonte: La Repubblica

La Sardegna fu Atlantide?

Atlantide Sardegna

Sono secoli che studiosi, filosofi, scienziati e letterati tentano inutilmente di ricollocare il mitico continente di Atlantide nella geografia interpretando ora Platone ora tutte le leggende mediterranee che ne hanno fatto il proprio fulcro, e sono secoli che ogni tentativo viene frustrato da mancanza di prove concrete, ma anche solo di indizi, testimonianze, idee. Sembra che oggi si sia sul punto di arrivare a uno stravolgimento delle convinzioni tradizionali e che una nuova luce possa essere gettata sulla madre di tutti i miti e sulla nostra stessa genesi come popolo italico. In questa, che è soprattutto un’operazione culturale, giocano un ruolo da protagoniste l’archeologia e la geologia (oltre alla rivisitazione storica e filologica) in un recupero del metodo scientifico come approccio risolutivo anche per le questioni apparentemente solo umanistiche o sociali.

Di volta in volta l’isola di Santorini, le isole britanniche, le Azzorre e le Canarie (e recentemente anche l’arcipelago nipponico o le coste turche) sono stati i luoghi maggiormente indiziati come gli ultimi retaggi del contineente perduto narrato da Platone nel Crizia e nel Timeo. Protetta da mura circolari di metallo e dotata di grande disponibilità di beni naturali, beneficiata da raccolti tre volte all’anno e da minerali preziosi del sottosuolo, Atlantide era una terra promessa situata al di là delle Colonne d’Ercole.
Già, ma dov’erano quelle mitiche colonne 2000 anni fa? Oggi tutti le collocano a Gibilterra, ma le analisi dei testi precedenti la nuova geografia di Eratostene (il primo a destinarle fra Spagna e Marocco) dimostrano che c’era molta confusione su dove piazzare i limiti del mondo quando la geografia non la facevano ancora i greci, ma i fenici e i cartaginesi, eredi di quegli antichi popoli del mare di cui si erano perdute le tracce dopo un avvenimento catastrofico (Atlantide non si è a un certo punto clamorosamente inabissata?).
La geologia dei fondali del Mediterraneo a questo proposito parla tanto chiaro che anche un non geologo, ma giornalista e archeologo come Sergio Frau (commentatore di Repubblica e novello scrittore di Le colonne d’Ercole, un’inchiesta, pubblicato da NUR-Neon di Roma) ha potuto notare che c’è una sola zona che poteva fungere da confine del mondo conosciuto prima che i commerci si spingessero più a Occidente, la sola che possedesse quei fondali insidiosi, e soprattutto limacciosi e costellati di secche, che gli antichi indicavano come Colonne d’Ercole, il Canale di Sicilia. Lo stretto di Gibilterra ha fondali profondi più di 300 metri e non c’è mai stato fango laggiù, come potevano sbagliarsi i tanti che avevano chiaramente descritto il canale di mare fra Sicilia e Tunisia.

Atlantide Antiche Rotte del Sole
Atlantide mistero

E se le Colonne d’Ercole erano davvero a largo della Sicilia quando Platone scriveva, perché Atlantide avrebbe dovuto essere alle Canarie o, tantomeno, a Sanotrini? I geologi avevano già escluso da tempo l’isola cicladica per via delle prove paleomagnetiche: i manufatti in terracotta dell’antica Thira (Akrothiri) si comportano come argille naturali in cui i granuli magnetici normalmente presenti si riorientano parallelamente al campo magnetico terrestre se riscaldati al di sopra di una certa temperatura (come quella dei forni in cui venivano cotti o di incendi). Confrontando quei dati con quelli provenienti dell’eruzione spaventosa di Santorini (XVI secolo prima di Cristo) si è escluso che la distruzione della civiltà minoica potesse essere contemporanea ai maremoti conseguenti a quella catastrofe, dunque, che Atlantide potesse coincidere con la Creta dei palazzi di Cnosso.

Ma al di là di quelle Colonne ora ricollocate c’è un’isola che ha un clima straordinario (capace di dare più raccolti in un anno), che è ricchissima di metalli e che è stata abitata per lungo tempo da un popolo che costruiva torri (i nuraghes dei Tirreni) e che forse è fortemente imparentato con gli Etruschi e con i Fenici e i Cartaginesi. Un’isola che poteva costituire un forziere naturale molto più vicino della lontana Spagna cui, chissà perché, dovevano preferire arrivare i naviganti del Libano e della Libya. Un’isola da tenere tanto segreta da farla quasi sparire dalle rotte, una specie di riserva naturale da oscurare nella notte del mito, un’idea di terra promessa che avrebbe potuto chiamarsi Atlantide. Quell’isola si chiama Sardegna e numerosi riscontri archeologici mostrano come sia stata repentinamente abbandonata attorno al 1178-1175. I nuraghes della costa sarda meridionale e occidentale, quelli a quote basse, sono tutti distrutti, capitozzati, con le grandi pietre gettate a terra, mentre quelli contemporanei della Sardegna settentrionale sono ancora oggi in piedi: sono possibili terremoti o maremoti in un’isola da sempre ritenuta tranquilla da un punto di vista tettonico?

La geologia potrebbe tentare di dare una risposta decisiva attraverso sondaggi opportunamente collocati nella valle del Campidano, vicini ai nuraghes ricoperti da una melma fangosa che ha tutta l’aria di essere un residuo di un’inondazione, o, addirittura, di un maremoto. In tutto il mondo le rocce di maremoto (tsunamiti) permettono di riconoscere le catastrofi del passato: l’ipotesi dell’asteroide che avrebbe causato la scomparsa dei dinosauri riposa in parte su prove come queste. Ma se tutto trovasse ulteriori conferme molte idee andrebbero cambiate: la storia e l’archeologia dell’intero Mediterraneo rischiano di essere stravolte in una nuova visione del mondo antico la cui origine sarebbe più vicina di quanto pensassimo.

di Mario Tozzi  (Fonte: La Stampa)

I cinesi alla scoperta delle cantine sarde

SANTADI. Per i cinesi il cin cin non è un brindisi ma un doppio bacio. Ieri nella Cantina sociale di Santadi i brindisi col Carignano del Sulcis sono stati numerosi. Anche i baci virtuali nei confronti di un territorio straordinario che ha entusiasmato i rappresentanti del paese più popoloso del mondo, un mercato potenzialmente infinito.

Sono arrivati in delegazione giornalisti e importatori di vino per scoprire i tesori del Sulcis: non soltanto enologici, naturalmente. Anche gastronomia, cultura, arte sono un territorio tutto da esplorare. Sarà una settimana di full immersion per degustare i vini più prestigiosi che cinque cantine sulcitane producono secondo le tecniche più moderne e con parametri di qualità elevatissimi.

Prima tappa Santadi e la sua prestigiosa Cantina sociale. Una visita agli impianti per ricavare emozioni, notizie ed informazioni utili a potenziare la diffusione in Cina dei vini Made in Sulcis.

«Conoscerete il nostro territorio – ha detto Antonello Pilloni, presidente del Consorzio del Carignano del Sulcis –, il lavoro dei vignaioli, la nostra storia e le tradizioni. Oggi non stiamo valorizzando solo i nostri vini ma una cultura millenaria».

Il vino Carignano è l’ambasciatore di una cultura antica e ambisce a diventare il volano di una nuova economia che punta sull’agricoltura, il turismo e l’ambiente per dare nuove speranze alla provincia più povera d’Italia.

«Stiamo puntando sull’export perché è l’unico modo per superare la crisi – dice Lino Cani, direttore commerciale della Cantina di Santadi – il Centro Europa, l’area occidentale degli Stati Uniti ed ora la Cina sono mercati molto ricettivi verso i quali possiamo esportare i nostri migliori vini».

È tempo di vendemmia e l’annata a Santadi si preannuncia ottima: maggiore quantità e qualità straordinaria. «Il mercato estero è sempre più ricettivo e il gap fra i vini italiani e quelli francesi è ormai scomparso. Vendiamo bene perché i nostri sono prodotti di qualità – conferma Raffaele de Matteis, della Cantina Sardus Pater di Sant’Antioco –. Abbiamo quattro prestigiose etichette che hanno ricevuto il riconoscimento come vini fra i migliori d’Italia».

In Cina il consumo del vino è recente, non più di dieci anni. Si punta sui prodotti medio alti: «Sino a qualche anno fa erano i vini francesi a farla da padroni – spiega , un importatore di Pechino – oggi il prodotto italiano si sta imponendo sempre di più. Ci sono stati molti eventi in Cina per far conoscere il Carignano.

Un’altra notizia è che il Sassicaia, che risulta «il vino più conosciuto al mondo», e i rinomati sardi Barrua e Montessu ora viaggiano insieme in groupage: hanno cioè gli stessi importatori e venditori. Lo sottolinea con soddisfazione il vice presidente e amministratore delegato dell’Agricola Punica, Antonello Pilloni: «Il Barrua, che negli Usa è paragonato a un grande tenore italiano, è un vino fortunato – ha detto Pilloni – di un’azienda che in appena undici anni di attività si è rilevata un investimento indovinato. Alla base del successo internazionale, e in particolare con le enoappassionate, l’indovinato blend scelto dall’enologo Tachis tra le uve Carignano e i vitigni internazionali coltivati nel Sulcis.

Il progetto Cina, intanto, si chiude con questa visita. Si guarda ad Oriente. Il 30 ottobre un nuovo appuntamento, questa volta in Giappone, a Tokio.

 

di Enrico Cambedda

…dal Sud-Est

L’amante del mare si trasforma in un pesce e dotandosi di maschera e boccaglio, inizia a perlustrare la zona a Sud-Est della Sardegna nelle acque di Costa Rei. Passeggiando tra le acque che avvolgono il corpo in movimento, si sente smarrito, non capisce se sta svolazzando nel bel cielo azzurro o, semplicemente, nel mare che riflette la sua lucentezza. Il suo respiro viene interrotto dallo stupore: dinanzi ai suoi occhi banchi di pesci piccolissimi si alternano a pesci di media grandezza come saraghi e scorfani che proseguono lentamente ignari della sua presenza. Vedere cotanta vivacità di colori in tutte le tonalità di scuri, fa nascere la voglia di immergersi in quei fondali. Ed allora trasformato in fervente esploratore, il sub si immerge in quelle acque, trasportando il proprio corpo, metro dopo metro, in un blu sempre più nero. Lo stupore provato, viene confermato ma è solo il preludio di ciò che andrà a vedere. La natura generosa regala fondali unici: nudibranchi di giallo luminoso e di viola scuro, aragoste di rosso intenso, paguri racchiusi nella loro conchiglia, cicale e cavallucci marini che aleggiano nell’acqua. Non solo singolari creature da colori improbabili vivacizzano il quadro che il sub ammira, ai suoi piedi sotto le sue imponenti pinne si incanta nel vedere vere e proprie praterie di poseidonia oceanica che popola e colora i fondali di un intenso verde smeraldo. Immerse in queste distese, sbucano con tutta la loro prepotenza pinne nobilis, le cosiddette gnacchere, che se ci si spinge a sfiorarle chiudono in faccia le proprie porte. Travolto da queste visioni emozionanti, il cuore del sub si fa gonfio alla vista di ondate di pesci e incuriosito dalla moltitudine, si avvicina e inizia a scorgere pian piano un’enorme ombra. Tra l’entusiasmo di scoprire nuove grotte sotterranee e la paura di essere di fronte ad un mostro marino, ecco che si tranquillizza e si esalta alla vista di un antico relitto, il Marte di Capo Ferrato. Come un ramoscello spezzato dalla forza del vento, il vecchio combattente si adagia da tempo nel letto di sabbia bianca e con i suoi fedeli compagni impreziosisce i fondali del golfo. Ricordando storie fantastiche su barche abissali, come un cercatore di tesori, si addentra su sentieri inesplorati segnati da travi oblique e dai deboli raggi solari che trafiggono il mare. Conscio di non appartenere a quel mondo, lo slancio sulle pinne fa nascere un senso di malinconia intaccata dalla consapevolezza, durante la risalita, che quel mondo sarà sempre lì ad aspettarlo.

Diving
Fondale Capo Carbonara

Stress in città e Riposo sull’Isola

Stress Stress Stress

Ore 06:30, la sveglia suona ininterrottamente, la funzione “post-poni” ed i famosi “altri 5 minuti” sono parte essenziale; riesci a mettere un piede fuori dal letto e sai già di essere in ritardo. Corri in cucina a prepararti un buon caffè, mentre stai lì ad attenderlo, senti la parola più dolce che ci sia “mamma”: non è il momento, il rumore del caffè che sgorga era l’unico suono accettabile a quest’ora. Con tutta la stanchezza, vai verso la creatura che invoca il tuo nome, con fatica cerchi di prepararla per la lunga giornata all’asilo. Preparato il pargolo, ti rendi conto del forte odore di bruciato che pervade la cucina: il caffè! Oggi niente caffè, corri a farti la doccia, veloce come non mai. Ancora avvolta nell’asciugamano, lanci uno sguardo all’orologio, sono le 7:15 e sei in ritardassimo. Sali in macchina, sei già dentro una lunga coda, arrivi trafelata al lavoro e sbattendo con forza la borsa sulla scrivania, vedi segnate le 08:45: anche stamane la speranza di arrivare in orario è svanita. Oggi, colloquiare coi vecchi, che a stento riescono a farsi capire, vedere file di persone che si accingono turno dopo turno al tuo sportello, è difficile più degli altri giorni. Ore 14:00, è finalmente arrivata la pausa pranzo: il vassoio colmo di ogni bene deve essere alleggerito in meno di 45 minuti. Il tempo di una chiamata all’asilo e ritorni alla tua scrivania con tutti quei fogli da archiviare. Si sente il rintocco delle campane vicine, ore 18:00, dilegui l’ultimo cliente della giornata e senti il capo che chiede di vederti; intimorita, ti rechi nel sontuoso e colorato ufficio e ti senti dire “dal 15 al 30 ferie”.

Estasiata dalla strepitosa notizia, torni a casa super raggiante, ti sdrai sul divano e col tuo smartphone cerchi su google “relax”: ecco che come primo risultato trovi un portale emozionale che parla di Sardegna. Incuriosita e sorpresa, apprendi che nell’Isola puoi fare dell’altro rispetto alla solita giornata al mare. Puoi scegliere tra sport, cultura, sapori e curiosità, ma un’altra sezione molto più particolare è “l’estasi”. I centri benessere in Sardegna? Acque termali? Si, proprio così. Situati in più parti dell’Isola, la ricerca del paradiso è garantita in qualunque struttura, ritrovando tutto ciò che ti aspettavi. Qui, il tempo si ferma, i ritmi di vita sono rallentati ed ogni singolo istante è scandito in perfetta sintonia con la natura. Un relax che solo una terra come la Sardegna con il proprio ambiente incontaminato, immersa nel verde e di generosa accoglienza, può dare. Le numerose acque termali che un tempo lenivano i dispiaceri e gli stress di Romani e Punici, sono la base per far nascere quelle più moderne dove il benessere e la cura del proprio corpo è di valore inestimabile.

La tua curiosità ora è divenuta certezza: dopo mesi e mesi di duro lavoro e di forte stress, di stanchezza, debolezza fisica e di continui mal di testa, la tua mente volge a quei splendidi luoghi. Con il biglietto della nave appena ricevuto via mail, scegliere tra Benetutti, Sardara, Casteldoria o Fordongianus è il tuo unico dilemma; da trattamenti tradizionali a trattamenti terapeutici, puoi scegliere ciò che desideri, deliziata dal cibo salutare e genuino del luogo.

La scelta ricade su Fordongianus e l’unicità del proprio paesaggio; sorto su un antico sito urbano, il centro benessere attira la tua curiosità anche per la possibilità di far divertire il tuo pargolo insieme a tanti altri bambini, accompagnati dai genitori, che, come te, vogliono rilassarsi senza dover trascurare la famiglia.

Arrivati a Fordongianus, la prima cosa che fai è spegnere il cellulare, ti dirigi per lasciare le valigie in camera. La dimora, che sarà tua per i prossimi cinque giorni, elegante e dai colori caldi come il sole che penetra dalle grosse vetrate, si affaccia su un paesaggio tranquillizzante ed entusiasmante.

Vestiti come se il mare fosse dentro quelle quattro mura, vi dirigete verso le piscine interne dai colori sgargianti e immersi nel caldo tepore dell’acqua cancellate i vostri brutti pensieri. Vedere la tua famiglia contenta, ti rilassa e ti pregia di mille coccole in serenità. Ora, è tempo di un massaggio, le mani sapienti e gentili riescono a rilassare i nervi tesi accumulati in questo periodo; 45 minuti d’intensa immaginazione con l’unica idea che saranno i 5 giorni più emozionanti dell’anno. E’ arrivato il momento di pranzare nel ristorante dove si susseguono mille portate con colori e sapori diversi per ogni tavolo; cibi genuini e salutari che anticipano le tradizionali pietanze sarde e che si sposano col percorso benessere affrontato. In tutta leggerezza ti puoi rilassare in piscina a guardare i colori del cielo azzurro oppure farti coccolare da trattamenti estetici di fango che rinvigorisco la tua pelle stressata e segnata dallo smog. Vedi il viso sereno del tuo bambino che socializza e gioca a fare il sommergibile in piscina, non lo vedevi così da tempo, contento di poter gustarsi le coccole di mamma e papà senza sentirsi dire “devo andare a lavoro”.

Sei in estasi, tutti i tuoi sensi trovano appagamento e sai che dormire in quell’hotel e risvegliarti l’indomani alle 10 per poter rivivere quelle stesse emozioni con sorprese sensoriali, è solo ciò che ti aspetta, niente chiamate e scartoffie da archiviare.

Arrivati al quinto giorno, fai le valigie, riassetti la stanza che ti ha ospitato con eleganza e vivacità e saluti, col groppo in gola, le splendide persone conosciute dicendo loro che il tuo è solo un arrivederci. Un Paradiso in terra, Fordongianus è solo un centesimo di tutte le emozioni che puoi vivere in Sardegna, Isola dalle mille facce.

Adesso tornata a casa, rilassata e proiettata per il lavoro dei prossimi mesi puoi fare solo una cosa: condividere le tue bellissime giornate in modo da far assaporare ai tuoi amici ottimi istanti o custodire gelosamente la tua “evasione”?

Il coltellaio “matto”

Coltello a serramanico di linea sinuosa, affusolata e piacevole non ha rivali: è il coltello sardo. Costruita in tutte le sue parti e in tutte le aree della Sardegna, da Guspini a Gavoi e da Nuoro a Pattada, “sa resolza” è la protagonista di qualsiasi collezione e con le sue diverse forme completa una tradizione unica in Sardegna.

In tempi antichi, il coltello sardo era il protagonista della vita quotidiana del mondo agro-pastorale e veniva usato dal pastore per nutrirsi, per difendersi e per uccidere le bestie; ora, invece è al pari di qualsiasi altro gioiello sardo, impreziosito dall’unicità della lavorazione in tutte le sue parti. Un corno di montone o di muflone ospita tra le sue “guancette” una lama di ferro, di acciaio o di ottone che conferisce al prezioso strumento una diversa lunghezza, pesantezza e maneggevolezza.

In passato abili fabbri, come scultori d’acciai, recuperavano le varie lamine da vecchi calessi e vecchie baionette per poi forgiarli di preziose rifiniture arricchendo le modellature del coltello. Ore ed ore di lavoro, il forte calore del fuoco, le mani sapienti e la creatività del fabbro conferiscono un valore unico ad ogni singolo pezzo. Visitare il “Museo Internazionale Culter” di Pattada, paesino immerso nelle campagne logudoresi, pregia di una visione unica nel suo genere; pattadesi ricurve, di corno chiaro, di corno nero con sfumature di grigio, con lame a foglia di alloro o allungate e strette stupiscono gli occhi del collezionista che vorrebbe portasele tutte a casa. Il valore inestimabile attribuito ad ogni singola lama, per ogni centimetro di una lavorazione lunga e estenuante, attira molteplici visitatori e amanti del coltello da tutte le parti della Sardegna, e non solo, vista l’elevata percentuale di ospiti internazionali.

Amare la lama artigianale creata da uomini di elevata creatività fa assaporare un mondo di storia e di tradizioni che nessuno può imitare perché non è il coltello in sé e né l’insieme di materiali ma l’anima di chi li lavora ed inventa.

Le “imitazioni” delle Pattadesi

SASSARI. Dopo i trenini, le automobili d’epoca e le immaginette dei santi gaudenti, infilzati, decollati, gli angeli con tutte le Madonne e i Beati, è la volta dei coltelli. Prima uscita della collana Hachette: la pattadese a 4 euro e 99 più gadget. A Pattada qualcuno è rimasto basito. Chi è stato? Chi ha piegato e pestato le balestre d’acciaio per quella cifra incredibile anche se si tratta di un modello da collezionista? La fucina, neanche a dirlo, è in Cina. E nemmeno il modello è stato richiesto dalla Hachette in Sardegna. Forse per paura di una stoccata …, cioè che rispondessero no. Per evitare il rischio hanno preferito rivolgersi a Sandro Mariani, un noto coltellaio di Foligno. Sue le lame che hanno brillato nelle serie tv Elisa di Rivombrosa e Romanzo criminale.

Forse i manager della Hachette hanno sottovalutato l’intelligenza dei pattadesi, la cui unica reazione è stata una legittima curiosità. «A noi, un’operazione come questa non arreca nessun danno, anzi potrebbre spingere il collezionista a venire qui e vedere la differenza». È il commento di Salvatore Giagu che da 30 anni, insieme alla moglie Maria Rosaria Deroma, unica coltellinaia d’Italia, gestisce una delle sei botteghe artigiane e l’unico museo del coltello, Culter, che esista in Europa.

A Pattada la rivista Hachette non è stata distribuita, ma Sandro Mariani, al quale è stata mandata una copia nelle Marche, assicura che «il lavoro è stato eseguito bene, naturamente è l’opera seriale, il risultato però è degnissimo». A Mariani, per inciso, di forgiare nel suo laboratorio le pattadesi non passa nemmeno per la testa: «Ci sono già tanti artigiani sardi bravissimi – dice – quando ho cominciato a lavorare ho fatto anche alcuni coltelli come i loro, poi ho lasciato perdere, mi sono dedicato alle altre lame».

«Capisce perchè non temiamo i coltelli che vendono con i giornali? – spiega Salvatore Giagu – Mariani è corretto, ma il 99% delle pattadesi che vengono vendute sono false. Chi danneggia la nostra immagine non sono i coltelli del collezionista ma quelli proposti nei negozi di artigianato come nei mercati. Oggetti addirittura accompagnati da certificati falsi firmati con cognomi sardi di fantasia».

Solo arrivando a Pattada, più d’uno, scopre di essere vittima di un equivoco. «È capitato che un signore ci abbia mostrato una leppa, certo che fosse autentica – spiega Giagu – l’aveva comprata a caro prezzo nella piazzetta di Porto Cervo. Gli abbiamo dimostrato che era stata fatta in Toscana, dalla Conaz: è corso a farsi rimborsare». «Per creare un coltello – aggiunge Giagu – occorrono dalle 15 alle 18 ore di lavoro, per altri anche una settimana.Il costo per ciò è stabilito a centimetro e lievita di centinana di euro. È ovvio che non possiamo temere chi propone un modellino, ma l’imitazione sì, e a poco serve aver depositato sette modelli». Esattamente come quando i cinesi propongono le borse e gli abiti griffati.

«Non basta l’acciaio per fare una pattadese – chiude l’artigiano – nei nostri oggetti mettiamo la nostra anima, la passione che i veri intenditori condividono con noi, non si può immaginare con quanto piacere accogliamo chi torna per rifare il filo a una lama comprata anni prima e che ha condiviso molti momenti tra le mani di un’altra persona. Sono nostre creature ed è emozionante, anche se solo per un attimo, riprendersi cura di loro».

Alla scoperta del pecorino

Greggi di pecore passeggiano lungo le campagne verdi, e sostando sotto una quercia secolare, vengono sorvegliate dal loro guardiano, il cane pastore, che coi suoi colori riesce a distinguersi dalla lana di bianco puro. Il pastore, fa ritorno all’ovile solo la mattina, quando con fare gentile ed amorevole raccoglie il latte che gli viene generosamente concesso. E’ emozionante vedere il mutamento del latte; il fuoco acceso al centro della “pinnetta” con sopra il grande pentolone e l’uomo con le sue possenti mani che mescola arditamente il candido latte fino a ottenere quelle forme di pura genuinità. E’ intrigante il suo profumo, deciso e pungente il suo sapore; assaporarlo riporta alla mente quelle distese di selvaggia bellezza e il profumo della natura. Immagina uno spuntino nelle montagne di Orgosolo: una tavola posta su due grandi pietre sorregge i vassoi di sughero colmi di salumi, seduti tutti intorno, mentre sorseggiano un bicchiere di vino rosso, i pastori che con maestria muovono la pattadese nel cuore del Casizolu; oppure, immagina di passeggiare per le foreste ogliastrine e scovare tra gli alberi un ovile e al suo interno gustare, su un letto di pane carasau, la ricotta appena fatta dal pastore gentile. Non si vivono fantastici sogni ma favolose realtà, lasciandosi avvolgere dai profumi e dai sapori di ogni morso di Sardegna.

Pastore al lavoro
Pastore e forme

Zia Antonietta ed il “suo” pane carasau

Il pane sardo più famoso rimarrà sempre il Pane Carasau. La lavorazione del pane, in tempi antichi, avveniva attorno all’unico focolare della casa ed era momento di dialogo tra le donne di famiglia. Le fasi che prevedono la preparazione del pane si susseguono in maniera ritmata e scandite dal sole. La signora del paese, madre di cinque figli, in un casolare immerso tra i verdi ginepri, mi raccontava come fare il pane fosse difficoltoso e stancante ma allo stesso tempo riuniva la famiglia in un momento conviviale in cui i più piccoli stavano adagiati in una cesta di vimini di bianco puro nei pressi del focolare e quelli più grandi giocavano sul lato opposto della stanza mentre i mariti erano in campagna, col freddo invernale, a pascolare i greggi. Momenti richiamanti la vita agro-pastorale a cui il pane carasau è fortemente legato: infatti, grazie alla sua durata, il pane veniva fornito in grosse quantità al pastore che, distante da casa per lunghi periodi, inumidendolo con l’acqua, poteva gustarlo come fosse fresco. La “zia” Antonietta, del paese del nuorese, racconta come il pane veniva lavorato e lo rifà davanti ai miei occhi con tanta facilità e destrezza. La signora dalle guance rosee, mi narra tutte le varie fasi mentre, con mani grandi ma graziose, mescola in una ciotola di terracotta il sale, il lievito, la farina di grano duro e l’acqua. Il colore biancastro dell’impasto è uguale a qualsiasi altro ma la potenza è senz’altro diversa; ad un certo punto, la signora con fare deciso e quasi pericoloso sbatte sul tavolo l’impasto ottenuto affermando che quel modo di lavorare viene chiamato cariare, ossia picchiare. Lasciata la pasta riposare sotto teli di lana, zia Antonietta si intrattiene nel dialogare su antichi detti sardi mentre cerca di lenire i fastidi dei piccoli pargoli che cercano le sue attenzioni. La donna mi racconta come in quel piccolo paese esistano delle piccole aziende che lavorano il pane in quel modo e che l’aiuto delle macchine industriali sembra intaccare la naturalità dell’impasto: “fatto in casa è tutta un’altra cosa”. Passato il tempo, la pasta lievitata viene stesa su un tavolo e a pezzetti le viene data la forma di disco. Una volta delineata la forma, la si pone in un forno a legna in cui il fuoco arde legni di quercia e olivastro; la pasta inizia a gonfiarsi e mai avrei pensato che il foglio di carta musica fosse la metà di quella palla dorata. Una volta estratta dal forno, la palla viene divisa in due da un coltello che la donna si presta a cercare in modo concitato. “E’ la fase più delicata” mi dice, “se non le separi ora, il pane carasau sarà troppo spesso”; ammutolita per non distrarre la sapiente donna, ammiro con quanta resistenza riesce a toccare quel pane cocente, lo divide e lo pone dentro un paiolo enorme. Ultimata la prima cottura, ogni foglio viene riposto in forno e viene fornita la doratura necessaria, a seconda dei gusti, e poi posto sotto un asse di legno rotonda che pressata riduce il volume di chili e chili di pane carasau. Dopo una lunga giornata in paese, saluto zia Antonietta e la ringrazio per aver saputo con tanta maestria concedermi questa lezione di vita pastorale.

Signora cuoce il pane carasau
Ragazza in abito prepara il pane carasau
Cottura Pane

La pasta fresca

La mietitura è il momento finale del lavoro degli agricoltori e di attenti curatori delle spighe di grano. Una volta raccolto, il grano viene riposto in ceste di vimini, intrecciate dalle capaci mani di anziane signore, e, divenuto polvere candida, è pronto per dar forma a morbide pietanze. In Sardegna, la tradizione della pasta è radicata nelle usanze dei suoi paesi grazie alla caparbietà delle donne di farla in casa. Per errore, casualità o tramandate ricette, le varietà di pasta, da impasto di farine, acqua e uova, si sono moltiplicate: dalle patate richiuse nella semola che richiama la spiga del grano, i culurgiones, gustati in tutta la loro morbidezza, ai granelli di fregola, tostati al forno e conditi con carne e pesce, sono parte di grandi tavole imbandite a festa. I famosi gnocchetti dalle due facce una ricurva su se stessa trattiene gelosamente il sugo come una canoa che protegge il suo appassionato, e l’altra dai rotondi rilievi scivola facilmente deliziando il palato con la sua morbidezza.

Il pane sardo

Prodotto attraverso rituali unici e affascinanti nelle sue varie forme e differente per ogni occasione è elemento sacro e protagonista nelle tavole. Il museo del pane rituale di Borore è un luogo dove sembra quasi di essere catapultati indietro nel tempo; l’aria che si respira richiama il sacrificio del raccolto e la felicità delle feste, utilizzando gli attrezzi di un tempo e da semplici visitatori si diventa partecipi della tradizione. Viene creata la tua esperienza nella lavorazione del pane sardo affiancato da donne sapienti e da mani lavoratrici, non ci sono industrie e non ci sono meccanicismi, semplicemente la creatività e la tradizione insite nei cuori e nelle menti delle donne sarde. La principale conoscitrice di quest’arte della Sardegna, perché di arte si parla, è la donna sarda che con abili mani riesce a fare di un cibo essenziale come il pane, decorazioni da tavola. Il coccoi di pregiata lavorazione era destinato a famiglie agiate che estasiate dalle minuziose decorazioni di spighe, rose, margherite, uva e pavoncelle avevano timore persino a sfiorarle, per paura di rovinare un’opera d’arte fatta di morbidezza. Il coccoi nella tradizione sarda assume elevata importanza; elaborato per cerimonie quale il battesimo e il matrimonio è addobbo di tavole tinte a festa. La sposa doveva impastarlo e confezionarlo assieme a parenti ed amici: era il momento in cui la sposa dava ai propri invitati la dimostrazione di essere una brava massaia. È giornata di festa in paese, è la Santa Pasqua ed i bambini, ancor oggi, ricevono in regalo dalle nonne il cosiddetto pane con l’uovo, il coccoi cun s’ou, che viene percepito come sacro e di buon augurio.

Il coccoi è quello più radicato nella tradizione e rimane il meno conosciuto. Gli altri pani che popolano la tavola sono diversi come la spianata morbida che accompagna, come fosse un tramezzino, nei picnic in campagna o nelle giornate al mare o come il pistoccu di più grossa consistenza accompagna gli aperitivi di carne e pesce condito di pomodorini rossi d’arborea.

Non è solo un cibo essenziale nella tavola di tutti i giorni, ma permea nella tradizione sarda al pari del costume sardo, della musica sarda e della lingua sarda elementi identificanti la Sardegna in tutta la sua originalità e vivacità.

 

Il sole sui “raggi”

Attraversare la Sardegna in bici è un emozione da provare. Lontani dal traffico e dalla folla estiva, si è immersi in splendidi scenari marini e nella natura selvaggia. Si vive in modo originale e non impattante l’Isola. Da Nord a Sud, sulle due ruote e appesantiti da una sola bottiglia d’acqua, ci si spinge metro dopo metro, tra salite corroboranti e discese esaltanti. Con percorsi che affaticano le gambe e la schiena è possibile assaporare parte della Sardegna: la pianeggiante penisola del Sinis, ricoperta da stagni, è ospitale dimora di colonie di fenicotteri dalle piume rosa, che al tramonto librano nel cielo sorvolando le rovine fenicie di Tharros. Passare affianco alle miniere di Acquaresi ammirandone il paesaggio abbandonato, per poi giungere alla spiaggia di Portixeddu bagnata da acque color cobalto dalle quali sorge lo scoglio dal primato naturale del Pan di zucchero. Sulla costa si sfidano i tornanti delle strade secondarie, intravedendo variopinti murales in paesi dai nomi più bizzarri. Spingendosi a oriente, sull’estremità est, si scende a picco sul mare cristallino del Golfo di Orosei passando poi per l’entroterra respirando l’aria fresca delle foreste del Gennargentu. Un mix perfetto tra sport e viaggio d’avventura all’insegna della libertà assoluta dove testare la capacità di superare i propri limiti.

Biking

Biking

La fiamma di Sant’Antonio

In più parti della Sardegna, Sant’Antonio Abate è festeggiato in piazza con folle di persone accalcate su balconi e parapetti per vedere ardere il fuoco che avvolge il tronco d’albero, sa pompia. In alcuni paesi, l’accensione del fuoco anima il ritmo di una processione, tre volte da una parte e tre volte dall’altra, seguita da donne e da uomini che si ritrovano in questa “danza”. I bambini saltano un fuocherello di basse fiamme e si divertono a cospargersi di fuliggine e di cenere, ormai fredda, il loro angelico viso: non è un capriccio, è segno di buon augurio, soprattutto in tempi passati. La festa che allieta l’inverno gelido della Sardegna, scalda il cuore delle persone che in questa occasione ritrovano la convivialità della comunità: settimane di preparativi, adornando le strade e le case con festoni di bandierine colorate, gli uomini devoti a Sant’Antonio Abate si mettono alla ricerca nelle campagne vicine di legname da ardere e di selvaggina da servire mentre le donne sapientemente creano dolci e paste dai profumi e colori più disparati. Durante la festa, gruppi di baldi giovani coraggiosi si addentrano tra le fiamme roventi che sa pompia accoglie nei suoi fianchi e cercano di raggiungere, in lotta tra loro, la vetta del lungo arbusto. Raggiunta la cima e conquistata la corona di arance, la folla si anima in un applauso sconsiderato: il vincitore è stato acclamato e il suo premio è un banchetto ripieno di ogni ben di Dio come il maialetto, la pasta e i dolci. Un bicchiere di vino rosso rubino accompagna i festeggiamenti all’insegna della musica e del ballo sardo che coinvolge inesperti danzatori in circolari coreografie e rendono la giornata di festa indimenticabile per tutto il paese e per i visitatori attratti dalla fiamma di Sant’Antonio.